Nelle tue mani di Peter Del Monte – Italia – 2007

6 Maggio 2017 | Di Ignazio Senatore

Mavi (Kasia Smutniak) sbarca il lunario lavorando come commessa in un negozio di scarpe e di notte come cameriera in un pub.

Un giorno investe con la propria auto Teo (Marco Foschi) un giovane studente universitario di astrofisica che ha attraversato la strada distrattamente; dopo averlo accompagnato in ospedale, per mitigare i sensi di colpa, gli promette che durante la degenza tornerà a fargli visita.

Teo l’aspetta invano e non appena si riprende, pianta la fidanzata (Alba Rohrwacher) si mette sulle sue tracce, le fa gli occhi dolci e la sposa. Nasce Caterina ma Teo inizia a viaggiare per lavoro; Mavi non regge il distacco, sta male, litiga, ha sbalzi d’umore e sprofonda sempre più nell’apatia e nella depressione. Nel finale un pizzico di speranza sembra illuminare la vita dei giovani protagonisti. Cineasta raffinato ed elegante,

Del Monte ha fatto sempre scuola a sé e, dopo otto anni di assenza dal grande schermo, dopo il sussurrato e dolente Controvento, impagina un’altra storia sospesa e diseguale, declinata completamente al femminile.

Sin dalle prime battute il controllato e razionale Teo gironzola intorno a Mavi che, senza troppi fronzoli, nel metterlo in guardia, gli confida: Lascia stare, io sono un casino”. 

Fragile ed insicura, Mavi s’aggira sullo schermo alla disperata ricerca di qualcuno che si prenda cura di lei e, come un disco rotto al suo Teo, ripete: “A me non va quando uno parte. A me non va di aspettare”.

Lui è tenero, l’ama, prova prendersi cura di lei ma non ha compreso che lei non tollera gli abbandoni e quando è da sola le manca l’aria, si disunisce, si scompone e sente il terreno franarle sotto i piedi.

Per tutto il film Mavi si muove sulla scena come un’animale ferito e, lasciandosi guidare dal proprio istinto primitivo e selvaggio, non riesce a fare i conti con la realtà.

Del Monte dosa perfettamente la narrazione, arricchendola con delle scene nervose e convulse, cariche di poesia. Teo è fuori per lavoro ed il telefono di casa non funziona; Mavi va in tilt e, travolta dall’irrefrenabile bisogno di parlare con lui, si fionda in una cabina telefonica lasciando la piccola Caterina da sola nell’appartamento.

Nella fretta  dimentica però le chiavi di casa e per poter rientrare nell’abitazione è costretta a chiamare gli operai e colleziona una denuncia per abbandono di minori. In una scena successiva Mavi va di notte sotto casa di Teo e dopo aver lanciato dei sassi in direzione del suo balcone, gli urla a squarciagola che rivuole la bambina; Teo scende in un lampo, prova a calmarla ma lei, non l’ascolta e senza pensarci due volte, lo ferisce all’addome con dei cocci di una bottiglia di vetro.

Come Mabel di Una moglie di Cassavetes, Eugenia de La storia di Piera, Grazia di Respiro di Crialese e Giulia de La guerra di Mario di Antonio Capuano, anche Mavi, asimmetrica, imperfetta è incapace di mettere dei legacci alla propria impulsiva istintività e finisce per pagare le proprie contraddizioni in prima persona e sulla propria pelle.

Per ammazzare la solitudine e la noia, tradisce Teo con un commesso del negozio ma perde la bambina che crescerà fino a cinque anni a casa della madre (Luisa De Santis) e del padre (Severino Saltarelli) di Teo. Successivamente rimane incinta di Dario (Riccardo Francia) un ragazzo timido ed impacciato e, messo al mondo Giacomo, crolla, si spoglia per strada e tenta il suicidio.

Del Monte non cade nella trappola di indicare da che parte sono i buoni ed i cattivi, non giudica, non condanna e soprattutto non vuole narrarci l’ennesima storia sui folli randagi e disadattati che incutono pietà e compassione nello spettatore ma la sofferta vicenda di una donna che è viva e pulsante e che è stata (forse) abusata da piccola dal padre (Luciano Bartoli) ed è totalmente priva di una figura genitoriale femminile di riferimento.

Teo, nelle prime battute del film, prova a trasmetterle la propria passione per una professione che lo espone quotidianamente all’inconoscibile ma lei, con lo sguardo ferito, taglia secco e gli dice: Per me l’ignoto meno c’è e meglio è.

Il film sembra perdere quota quando entra in campo un frastornato e legnoso Marco Foschi ma si ravviva e s’infiamma ogni qual volta compare la dispersa e smarrita protagonista.

Del Monte è un maestro nello scavare impietosamente nel suo volto intenso e traboccante di sofferenza; Smutniak ti esplode dentro non solo per la sua ruvida bellezza ma soprattutto per la sua capacità di dare corpo ad un dolore profondo, cupo e senza nome.

Il finale consolatorio non fa a cazzotti con il resto del film ed è sincero, tenero e commovente. Un plauso alla Blue Film, ala Cocacolor ed all’111 marzo che lo ha prodotto senza il contributo della Rai e dello Stato e che la Theodora Film ha coraggiosamente distribuito in trenta copie.

Per l’intervista completa a Peter Del Monte, l’antologia della critica e della critica online del film si rimanda al volume di Ignazio Senatore: “Peter Del Monte Un regista controvento” -Falsopiano Editore (2017)

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