“La scrittura è una terapia. Se non scrivo ogni giorno sono nervosa. Tra tutte le forme d’arte è quella che si avvicina di più a me. In un romanzo devi dire tutto con la parola. Nel film sei più protetta perché ti vengono in soccorso tanti strumenti: gli attori, le luci, la colonna sonora…”.
Ilaria Borrelli si racconta così, tutto d’un fiato. Diretta, arriva diritto al cuore delle cose, senza sfoggiare per l’occasione citazioni dotte o frasi attorcigliate e misteriosi giri di parole. Ripercorre velocemente le tappe della sua carriera (nasce come attrice in Francia) e poi rievoca quello che fu per lei una rivelazione sulla via di Damasco:
“Ero sul set con il regista con il quale stavo lavorando e tentai di suggerirgli qualcosa. In maniera secca e decisa mi rispose: “Quando dirigerai il tuo film farai quello che vuoi.” Detto fatto.
Senza pensarci su due volte raggranella i suoi risparmi e vola via in America. Si iscrive al corso diretto da Susan Bateson (una delle quattordici membri dell’Actor’s Studio) e diligentemente esegue i compitini che le vengono assegnati. Monologo su monologo (sul padre, sulla madre, sul fratello) apprende l’arte della sceneggiatura e si guarda sempre più dentro. Grazie ad un’ottima frequentazione con la parola scritta pubblica due romanzi con Avagliano (“Look at me” e “Domani si gira”) ed uno con Pironti “Scosse”.
Poi, finalmente, quest’anno il salto dietro la macchina da presa. “Mariti in affitto” è la sua pellicola d’esordio, una commedia brillante girata tra Procida e New York che si avvale dell’interpretazione di Maria Grazia Cucinotta, Chevin Chase e Brookie Shields.”
Ironica, fresca e con il piglio di chi sa il fatto suo, la giovane regista napoletana sembra aver le idee chiare:
“Quando facevo l’attrice ed ero arrabbiata per i ruoli che affibbiavano alla donna; il ruolo della moglie depressa ed inquieta o quella della fidanzata cretina. Le donne si piangono addosso non osano abbastanza e vogliono fare le vittime e farsi compiangere. Ho voluto mutare registro e proporre una donna diversa dagli stereotipi che compaiono in maniera seriale sullo schermo.”
Noncurante dei commenti negativi ricevuti dalla critica (il suo film sembra sia stato apprezzato “solo” da Lietta Tornabuoni) liquida queste stroncature con il sorriso sulle labbra:
“La critica l’ha snobbato perché ho girato un film a New York, in lingua inglese e perché è sfacciatamente un omaggio alla commedia brillante americana. Inoltre, nessuno di loro ha compreso che questa mia opera prima è di per sé un film politico. Su sessantasette film prodotti questo anno in Italia solo quattro sono di donne e lei è stata l’unica regista esordiente questo anno. Quando andavo a chiedere i finanziamenti per il mio film i produttori, in maniera paternalistica mi dicevano di mettere su famiglia o mi enumeravano la lista delle registe che facevano flop al botteghino.”
A differenza delle sue conterranee, non sceglie il taglio autoriale (Nina Di Maio) la traccia autobiografica (Antonietta De Lillo), né ripercorre il filone melò della antesignana di tutte le registe napoletane (Elvira Notari) ma lambisce il genere commedia leggera. Delle due l’una: o la giovane regista è un’astuta comunicatrice che “gioca al ribasso” per non essere attaccata e per evitare di fare i conti con la propria inesperienza di regista o è una sincera appassionata di quel filone (quello della commedia brillante) che se declinata al femminile (Lina Wertmuller esclusa) stenta spesso a decollare. E se Antonio Capuano affida la colonna sonora dei suoi film agli Almamegretta, Troisi sceglieva Pino Daniele, lei preferisce Gigi D’Alessio. De gustibus.
L’Articolo – Redazione napoletana de L’Unità – 25-6-2004
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