La parola “folle” deriva dal latino “follis” e rimanda ad una “testa vuota”; “pazzia”, invece, discende dal greco “pathos” e indica “sofferenza”. Va da sé che la figura dell’alienato, altro termine con il quale anticamente veniva indicato chi soffriva di disturbi mentali, è una sorta di figura archetipica che incute terrore e inquietudine, al pari del vampiro, del demonio, del lupo mannaro e dello zombie, perché simboleggia un soggetto che ha perso i confini della propria mente ed è in balia delle pulsioni istintuali.Parafrasando la celebre raccolta di racconti di Raymond Carver, c’è da chiedersi, innanzitutto, “di cosa parliamo quando parliamo di… follia”, dal momento che la sua raffigurazione è variata con i cambiamenti della società e con i mutati approcci della psichiatria alla malattia mentale. In vero, il mondo della celluloide, già nel 1919, nel celebre Il gabinetto del dottor Caligari di Robert Weine, mostrava uno psichiatra, direttore di un manicomio, che impazziva.
Nel 1925, in “Misteri di un’anima” di George W. Pabst ci regala la prima rappresentazione della “cura analitica” e mostra uno psicoanalista che guarisce un paziente, vittima di una nevrosi fobica, ossessionato dagli oggetti di forma appuntita. La maggior parte dei registi e sceneggiatori che hanno messo in campo un “folle” disseminano la narrazione di falsi indizi e confezionano una trama dove fantasia e realtà il più delle volte si intrecciano. Lo spettatore resta così nel dubbio se la storia che scorre sullo schermo é frutto delle fantasie malate del protagonista o la fedele ricostruzione della realtà.
In Inferno di Claude Chabrol, Paul (François Cluzet), proprietario di un piccolo alberghetto di provincia in riva a un lago dei Pirenei, sposa Nelly (Emanuelle Béart), una donna seducente che ama discorrere con i clienti e scherzare piacevolmente con loro. Con il passar del tempo, nella mente di Paul si fa strada sempre più insistentemente la convinzione che la moglie lo tradisce e pertanto inizia a seguirla, a sottoporla ad estenuanti interrogatori, fino ad individuare in Martineau (Marc Lavoine), un giovane meccanico, il presunto rivale. Nella scena clou del film c’è la proiezione di un filmato amatoriale, girato da uno degli ospiti della locanda che mostra le dolci effusioni tra Nelly e Martineau. Ma le scene “rubate” dal cineoperatore sono la “prova” che attestano il tradimento di Nelly od il frutto della malata immaginazione di Paul?
Su questo consolidato clichè, la Settima Arte, con alterne fortune, ha confezionato centinaia di pellicole. La raffigurazione del folle sullo schermo però non è quasi mai tenera o benevola e il più delle volte ricalca quella del “matto” assassino (Shining di Stanley Kubrick, docet) che entra in scena con l’ascia e l’occhio iniettato di sangue.
Qualche regista spettacolarizza la follia raffigurando il protagonista in preda a delle incomprensibili farneticazioni o travolto da incubi (In dreams…) e allucinazioni (Repulsion…). Per mostrare lo scompaginamento della mente del protagonista, i registi il più delle volte fanno ricorso a degli espedienti visivi (dissolvenze, sovrapposizioni, giochi di specchi e luce), che impreziosiscono la pellicola ma finiscono, a volte, per diventare solo dei meri esercizi di stile. E’ divertente notare come alcuni registi e sceneggiatori provano a dare una spruzzata di scientificità alle loro storie, inserendo delle improbabili diagnosi o immaginando quali fattori scatenanti avrebbero determinato la genesi della malattia mentale. Altri, invece, fanno ricorso al ruolo schizofrenogeno della madre (Frances…), alle influenze dell’intero gruppo familiare (Family life…) o alla riscoperta dei cosiddetti fattori traumatici (Il principe delle maree), topos, quest’ultimo, in gran voga nel cinema a stelle e strisce. Sarebbe un errore sottolineare con la matita rossa o blu le discrepanze tra le verità scientifiche e gli intrecci narrativi proposti nella finzione filmica. Compito di registi e sceneggiatori è quello di creare delle storie che affascinano e non quello di aderire ai quadri clinici descritti in letteratura. Quando qualche regista, come nel caso di Diario di una schizofrenica di Nelo Risi (1968), ha provato a mettere in scena un film “scientifico” e il risultato è stato più che deludente.
Il cinema, generalmente, rilegge il “folle” come vittima di forze pulsionali che prendono il sopravvento sulla sua parte razionale e sullo schermo sfilano chi è affetto da delirio paranoideo (Chi è Harry Kellerman e perché parla male di me…) di gelosia (Gelosia.), erotomanico (Valeria dentro e fuori…) o da sdoppiamento della personalità (La donna dai tre volti, Psycho…). Non c’è genere cinematografico che non abbia offerto una propria rappresentazione del “folle”: dall’horror (Amanti d’oltretomba…) al giallo (Il coltello di ghiaccio,…) dalla commedia (La sai l’ultima sui matti, Se tutto va bene siamo rovinati…) al drammatico (L’inquilino del terzo piano…). Non potevano mancare i luoghi di cura e sul grande schermo, al fianco delle lussuose cliniche private (La tela del ragno…), campeggiano, soprattutto nel cinema classico hollywoodiano, i manicomi (La fossa dei serpenti, Improvvisamente l’estate scorsa…), descritti come luoghi lugubri e inospitali, popolati da pazienti indementiti, che vagano come ombre per gli spogli e disadorni stanzoni.
Al fianco dei matti “simpatici” (Tutte le manie di Bob, Harvey…), in diverse pellicole compaiono i “folli” che naufragano definitivamente nella pazzia (Il corridoio della paura…). Generalmente, il clima che circola in queste pellicole è cupo e senza speranza ma il cinema ha anche regalato finali meno drammatici e mostrato personaggi che riescono, in qualche modo, a lasciarsi alle spalle deliri e allucinazioni (A beautiful mind…), a liberarsi dei propri fantasmi interni (Ragazze interrotte…) e a programmare una vita migliore (Elling,…).
Naturalmente, non potevano mancare gli psichiatri che, il più delle volte compaiono all’interno della narrazione, come figure marginali e di sfondo. Generalmente, la rappresentazione dello psichiatra al cinema, al pari di quella del “folle”, è serializzata. Per lo più gli “strizzacervelli” sono descritti come professionisti arruffoni, pasticcioni, scarsamente empatici e più pazzi dei pazienti che hanno in cura. Dulcis in fundo, quasi tutti sono incapaci di controllare il proprio contro – transfert erotico e vanno a letto con le pazienti che hanno in cura.
Un capitolo a parte meritano gli psichiatri che compaiono nei gialli e che hanno il compito di svelare, con delle spiegazioni a dir poco opinabili, le possibili motivazioni che avrebbero spinto l’assassino a compiere il delitto. L’esempio più fulgido compare in Psycho, ineguagliabile capolavoro di Alfred Hitchcock. Sarà, infatti, il dottor Fred Richmond (Simon Oakland) che, sul finale, illustrerà come il protagonista, Norman Bates (Anthony Perkins), dopo aver ucciso a madre e il suo amante, dilaniato dai sensi di colpa, abbia iniziato a travestirsi da donna e a prendere il suo posto, per continuare a “tenerla in vita”.
In conclusione, non posso che far riferimento al romanzo Lunga notte di Emilio Tadini, pubblicato nel 1897, che descrive, mirabilmente, il rapimento dello spettatore nella febbrile attesa che quel fascio di luce illumini la sala buia. Come il personaggio di Tadini, ogni qual volta sto per assistere alla proiezione di una pellicola, sono invaso da una travolgente inquietudine. Anch’io, quindi, sono “pazzo”; pazzo del cinema.
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