Uno per tutti di Mimmo Calopresti – Italia – 2015

26 Gennaio 2016 | Di Ignazio Senatore

Gil (Fabrizio Ferracane), Vinz (Giorgio Panariello) e Saro (Thomas Trabacchi), amici di un tempo, immigrati al Nord nel ’70, si ritrovano dopo molti anni; il primo è un imprenditore ricco e senza scrupoli, il secondo un poliziotto senza il becco di un quattrino ed il terzo un medico scoppiato e depresso.

Proveranno insieme a cavare dagli impicci, Teo, figlio adolescente di Gil che, nel corso di una rissa, ha accoltellato un coetaneo.

Ci sono dei film che, come delle frecce, seguono percorsi rettilinei e non prevedono mutamenti di rotta. Altri, invece, fanno delle curve, si inarcano, prendono il largo e ti portano in un altrove dove, a briglia sciolta, puoi liberare la tua immaginazione. 

L’ultimo film di Calopresti, al ritorno alla regia per il grande schermo dopo circa otto anni, appartiene, senza alcun dubbio, alla seconda categoria.

Il regista calabrese, per la prima volta, nella sua ventennale carriera, non s’affida ad una sceneggiatura scritta di suo pugno ma s’ispira ad un’avvincente e ruvido romanzo (Uno per tutti, edito da Sellerio), scritto da Gaetano Savatteri, co- sceneggiatore del film assieme allo stesso Calopresti ed a Monica Zapelli (già presente ne L’abbuffata).

Come ogni trasposizione cinematografica che si rispetti, Calopresti “tradisce” il romanzo, e pur rispettandone in pieno lo spirito e l’essenza, apporta numerose variazioni.

Non solo trasporta la vicenda dalla periferia milanese alla città di Trieste ed inserisce nuovi personaggi femminili, ma immerge la narrazione nel tempo presente, riservando solo dei piccoli flashback alle vicende che legavano un tempo i protagonisti.

L’ingresso in campo di Teo (Lorenzo Barone) e di Greta (Irene Casagrande), la dolce fidanzatina, personaggi assenti nel romanzo, il maggior spazio riservato alla figura di Eloisa (Isabella Ferrari) finiscono per rendere più marginale la storia centrale del romanzo; quella della “virile” e nostalgica amicizia che accomuna Gil, Vinz e Saro (nel romanzo Giò, uno scrittore e non un medico), indissolubilmente legati tra loro da un antico rimorso e dal peso di una colpa antica, per un episodio del passato che li ha visti, quando erano bambini, complici (loro malgrado) di un gioco terminato tragicamente.

Come ogni noir che si rispetti, tutti i personaggi della vicenda, tragici e disperati, si dibattano, invano, contro il proprio immutabile destino e sebbene siano disposti a scendere a patti con la propria coscienza, rimangono prigionieri delle loro stesse contraddizioni;

Gil ha accumulato soldi, dispensando qua e là mazzette, ma ha la Finanza alle calcagna e sconta il gelo di un rapporto affettivo inesistente con moglie e figlio; Eloisa, pur sapendo dei traffici del marito, fa finta di nulla e, dilaniata, dalla solitudine, in cerca di un’insperata felicità, trascorre le giornate praticando il tai chi e ripetendo, meccanicamente, nelle sue preghiere “Nam-Myoho- Renge Kio”.

Saro, da sempre innamorata di lei, nella speranza di strapparle qualche momento di intimità, travalica ogni regola di deontologia medica e, pur disprezzandolo, diventa complice di Gil;

Vinz è pieno di debiti e, pur non trovando il coraggio di ricattare Gil per scucirgli dei quattrini, non si fa scrupolo di occultare delle prove che potrebbero incastrare Teo; quest’ultimo, infine, ama Greta, che però fa il filo ad un altro ragazzo.

Calopresti, per la prima volta alle prese con un noir, punta su dei dialoghi diretti, taglienti, a volte brutali, quasi a ricordarci che, in questo mondo, sempre più spietato e violento, nessuno cerca il dialogo o il confronto con l’altro ma desidera solo urlare e sbattere in faccia all’altro la propria verità.

Nel corso del film, infatti, Gil, non si interrogherà sul perché il figlio si è reso responsabile di quel grave reato e non ospita nemmeno per un istante l’idea che possa essere punito per quanto commesso; “E la legge deve valere proprio per mio figlio?”, commenterà, sarcasticamente, all’incredulo Saro.

E quando Vinz gli suggerisce che è preferibile che Teo confessi, dopo avergli riso in faccia, a muso duro, con tono sprezzante, replicherà: ”Cos’è il crimine non paga e la polizia paga peggio?”

“E’ vero che all’inizio, quando si incomincia a fare dei film, si vogliono fare solo cose stravaganti. Poi man mano che si va avanti, ci si rende conto che l’effetto è ancora più forte se si lavora di sottrazione.”

Fedele a questa illuminante riflessione di Claude Chabrol, Calopresti lima, sottrae e, confermando la sua maturità artistica, riesce, con maestria, a mantenere coesa la narrazione, restando sordo ai facili richiami populisti di un certo cinema “poliziottesco” nostrano, ritornato prepotentemente in voga ai giorni nostri.

Il regista (che anche in questo film si ritaglia un piccolissimo cameo, vestendo i panni di un avvocato penalista disinvolto e senza scrupoli) s’affida al cinismo di Fabrizio Ferracane, all’amaro disincanto di Thomas Trabacchi ed alla recitazione sospesa e smarrita di Isabella Ferrari. Giorgio Panariello, smessi i panni del comico, riesce a dare spessore e credibilità al personaggio arrabbiato, imploso e controverso di Vinz. Non deludono, infine, i giovanissimi Lorenzo Barone ed Irene Casagrande.

Articolo pubblicato su Segno Cinema N.197 Gennaio Febbraio 2016

Per l’intervista completa a Mimmo Calopresti, l’antologia della critica e della critica online del film si rimanda al volume di Ignazio Senatore: “Mimmo Calopresti La parola cinema esiste” -Falsopiano Editore (2017)

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